Cercasi regia comune anti-inflazione | ISPI

2021-12-30 01:44:09 By : Ms. Jay park

EUROSTAT stima che a fine novembre nell’area dell’euro l’inflazione annuale sia stata del 4,9%, due volte e mezza quella desiderata nella strategia delle banche centrali. In Italia la stima dell’inflazione annua a novembre è 3,8%, in netta accelerazione dal mese precedente. Ma negli ultimi anni l’inflazione nell’eurozona è stata bassa e a tratti negativa, sicché l’indice dei prezzi al consumo nei tre anni dall’ottobre 2018 è cresciuto meno del 5%. Simili sono stati gli aumenti dei prezzi nel Regno Unito. Negli USA l’aumento dei prezzi al consumo è più accentuato: son cresciuti del 6,2% nell’ultimo anno e del 9,5% (più del 3% annuo) negli ultimi tre anni. In Giappone l’inflazione è sopra lo zero che è la media degli ultimi tre anni. Nel complesso, uno scenario di prezzi in accelerazione, dopo aver molto rallentato nel corso della pandemia. In Cina l’aumento annuo dei prezzi al consumo è ancora solo dell’1,5% mentre sono fortissime le tensioni (aumenti superiori al 10% annuo) dei prezzi ingrosso pagati dai produttori.

Vi sono poi le inflazioni molto alte di Paesi come la Turchia (20%, dopo il 13% medio negli ultimi tre anni), la Russia (8,1%, dopo il 5% medio dall’ottobre 2018), o l’Argentina (addirittura il 52%, il doppio che all’inizio del 2018).

Le principali banche centrali per ora hanno reagito poco alla maggiore inflazione. La FED ha cominciato a rallentare l’acquisto di titoli sul mercato, il famoso “quantitative easing” (QE) che potrebbe cessare a metà dell’anno prossimo, senza però ridurre l’ammontare di titoli già acquistati. Il piano di QE della BCE è invece per ora invariato. Entrambe hanno rinviato ogni ritocco ai tassi di interesse che controllano, da tempo prossimi o inferiori allo zero. Per dirla col presidente della FED (analoghe sono le dichiarazioni della BCE), aumenteranno i tassi solo quando vedranno “il percorso dell’inflazione, o le aspettative di inflazione a lungo termine, muoversi in modo considerevole e persistente oltre il nostro obiettivo” del 2% annuo.

Con ritardo disponiamo anche delle previsioni che i membri del comitato che fissa la politica monetaria della FED formulano sui tassi che la FED stessa fisserà in futuro se vorrà mantenere i suoi obiettivi. In settembre, la mediana delle loro previsioni segnalava un piccolo aumento l’anno prossimo ma un intero punto percentuale nel 2023 e quasi due punti nel 2024. Ciò fa pensare che già prima della fine dell’anno prossimo la FED comincerà a rialzare i tassi. Non essendoci informazioni analoghe sulla BCE, che tiene i tassi base già oggi più bassi (negativi) che in USA, prevale l’attesa di un aumento della divaricazione fra le politiche monetarie delle due sponde dell’Atlantico che favorisce la svalutazione dell’euro rispetto al dollaro che, in effetti, da giugno è stata dell’8%.

L’inflazione oggi nel mondo ha almeno due motori e un carburante. I due motori sono 1) lo squilibrio fra la crescita della domanda e quella dell’offerta nel corso della ripresa post-pandemica, e 2) le aspettative circa la stessa inflazione che guidano le decisioni di chi può influenzare o fissare i prezzi (e i salari). Il carburante sono le gran quantità di moneta e credito generate dalle politiche espansive dell’ultimo decennio. Non basta che ci sia tanta liquidità per accendere l’inflazione; ma se si accende, la liquidità può farla divampare.

Per contenere la corsa dei prezzi le banche centrali possono influenzare il secondo motore, quello delle aspettative, e controllare il livello del carburante, che però negli anni si è accumulato in tal quantità da non poter essere riassorbito rapidamente. Potrebbero anche aumentare il prezzo del carburante, cioè i tassi di interesse, che hanno schiacciato a lungo verso il basso fino a farli diventare in alcuni casi negativi. Ma il loro aumento non può essere improvviso, per non spaventare i debitori che dovranno pagarli e non punire troppo i creditori, che hanno investito a tassi molto bassi e vedrebbero svalutarsi bruscamente i titoli che hanno in portafoglio. Sicché il modo più immediato e consistente che hanno per impedire al primo motore, che è fuori dal loro controllo, di causare troppa inflazione è quello di frenare il secondo, sforzandosi di contenere l’aumento atteso dei prezzi.

In effetti vediamo tutte le principali banche centrali impegnate soprattutto in questo sforzo, anche se in misura e con metodi diversi. Possono innanzitutto affermare che l’inflazione attesa è di fatto contenuta, soprattutto quella attesa nel lungo periodo: la media delle previsioni professionali rilevate e riportate dalla BCE sull’inflazione nei prossimi 5 anni rimane nettamente sotto il 2% annuo. Possono poi insistere sul fatto che la loro previsione è di una sollecita diminuzione dell’inflazione: il 3 novembre il presidente riconfermato della FED Jerome Powell ha affermato che “certamente dovremmo vedere l’inflazione scendere nel secondo o terzo trimestre dell’anno prossimo”. Se sono credibili, i singoli operatori che formano la loro aspettativa la modereranno per adeguarsi alle attese più condivise.

Le banche centrali possono anche sostenere che il primo motore, lo scompenso fra domanda e offerta, è solo temporaneamente acceso e presto si spegnerà, perché è molto connesso alla ripresa post-pandemica, nella quale sono apparsi vari ostacoli che impediscono alle produzioni di adeguarsi prontamente alla ritrovata vivacità della domanda, causando così tensioni sui prezzi. Sono produzioni che la crescente specializzazione dei singoli produttori, l’evoluzione delle tecnologie e la globalizzazione dei mercati, hanno segmentato in lunghe “catene del valore”, dove i vari stadi produttivi sono spesso in Paesi diversi e basta che uno si inceppi per impedire alle produzioni finali di soddisfare la domanda, spingendo così al rialzo i prezzi. È successo nei più vari settori: dai semiconduttori alle macchine usate, dall’energia a importanti produzioni agricole, dai noli navali ai materiali per l’edilizia. Di particolare rilievo è lo squilibrio fra la forte ripresa della domanda di energia e il ritardo nell’adeguamento dell’offerta, che ha aspetti e cause diverse e complesse: uno squilibrio che ha molto elevato il prezzo dell’energia, elemento cruciale nei costi di produzione degli altri beni. Man mano che la ripresa si consolida e l’offerta si adegua, in misura e struttura, alle nuove condizioni post-pandemiche, si dovrebbero superare gli ostacoli e l’attrito inflazionistico fra domande e produzioni dovrebbe calmarsi.

In effetti l’OCSE prevede che l’inflazione nella maggioranza dei Paesi avanzati ed emergenti abbia un picco nel primo trimestre del 2022 per poi scendere gradualmente, almeno se non prendono corpo alcuni rischi che la manterrebbero crescente. Fra questi rischi l’OCSE elenca: il persistere e l’aggravarsi degli ostacoli prima menzionati all’adeguamento delle produzioni alla domanda, l’eccitazione improvvisa delle aspettative di inflazione degli operatori che influenzano i prezzi, il diffondersi degli aumenti ai prezzi di prodotti che per ora non hanno alimentato l’inflazione, effetti diretti e indiretti dei notevoli aumenti dei prezzi delle abitazioni in diversi Paesi, irrigidimenti sindacali che riversino presto e molto la maggiore inflazione nei salari.

D’altra parte, se altre ondate di epidemia dovessero prolungarne la durata, cosa che purtroppo ogni giorno diviene più probabile, anche la domanda tornerà a contrarsi, riducendo l’attrito da ripresa sull’offerta e le sue conseguenze sui prezzi. In una prima fase però, il lock down delle produzioni potrebbe precedere il freno della domanda, eventualmente sussidiata da trasferimenti pubblici, causando invece maggiore inflazione.

Gli attriti post-pandemici sono anche sui mercati del lavoro, per i notevoli scompensi fra le nuove tipologie di lavoratori richiesti dalle imprese, in una ripresa che vede mutamenti strutturali nelle produzioni, e le caratteristiche dei lavoratori disponibili a tornare a lavorare. Ciò causa la convivenza di aumenti dei salari con sacche di disoccupazione. Ma i salari che crescono lo fanno, appunto, per la maggior domanda di certi tipi di lavoro, e non, per ora, come conseguenza di aspettative di più inflazione dei prezzi dei beni che i salariati dovranno comperare. Gli aumenti dei salari, che pure ci sono in alcuni settori di alcuni Paesi (in particolare negli UsSA), non sono dunque prova di maggior inflazione attesa, non influenzano a loro volta gli aumenti dei prezzi e non configurano al momento la partenza di quella viziosa spirale fra prezzi e salari che costituisce spesso la spina dorsale di un’accelerazione dell’inflazione. Ciò supporta il messaggio delle banche centrali che de-enfatizza il pericolo di inflazione.

Infine, per influenzare le aspettative, le banche centrali possono accennare, con molta prudenza, qualche primissimo passo nel riassorbimento del carburante, cioè nella riduzione della liquidità e nell’aumento dei tassi di interesse che controllano o influenzano. Per quanto l’estrema gradualità di questo cammino sia d’obbligo, si può cominciarlo, preannunciando una strategia di normalizzazione delle condizioni di finanziamento che non spaventi nessuno, proprio perché dà tempo a tutti per adattarsi.

Tutte queste mosse per gestire al meglio i timori di inflazione e di successive strette monetarie, richiedono credibilità delle banche centrali. Altrimenti l’accelerazione dell’inflazione, anche se ha radici provvisorie, entra stabilmente nelle aspettative e diventa duratura, difficile da eradicare. La credibilità delle banche centrali ha un poco sofferto dal fatto che per anni esse hanno giustificato l’espansione della liquidità e l’acquisto straordinario di titoli pubblici e privati con l’obiettivo di aumentare un’inflazione troppo inferiore al 2%: un obiettivo che continuava a sfuggire e che solo ora, in seguito alla pandemia, pare improvvisamente e inaspettatamente (!) essere minacciato all’incontrario. Da questo punto di vista sarebbe benefico che i piani di rientro graduale dall’impostazione straordinariamente espansiva dell’ultimo decennio fossero coordinati a livello internazionale e annunciati con trasparenza e omogeneità. I piani delle diverse banche centrali non possono e non devono essere uguali, perché le condizioni macro-finanziarie delle rispettive aree monetarie differiscono, ma non devono nemmeno presentarsi in modi e tempi scoordinati. Ciò rischierebbe di trasformare il percorso verso la normalizzazione monetaria internazionale in un cammino controverso, competitivo, disordinato, dove i mercati rimangono continuamente sorpresi e anche i tassi di cambio potrebbero divenire fonte di instabilità. Più in generale, sarebbe bene riconoscere che ormai l’inflazione origina in parte molto rilevante dai cicli globali quasi come la circolazione della liquidità e ha poco senso affrontarla con strategie nazionali. La credibilità delle banche centrali crescerebbe anche se vi fossero segni più convincenti del fatto che esse difendono con successo la loro indipendenza e decidono senza essere troppo catturate dai desideri dei rispettivi governi, troppo spesso affamati di moneta, né da quelli dei mercati dei titoli, troppo spesso desiderosi che le politiche monetarie facilitino la continua salita dei corsi anche quando non ben giustificata dai fondamentali.  

Per organizzare il coordinamento dei piani di normalizzazione risulterebbe preziosa l’azione esplicita del FMI che potrebbe “convocare” le autorità nazionali in gruppi scelti ad hoc per facilitare il raggiungimento di annunci coerenti nella forma e nella sostanza. L’auspicio di questo intervento del FMI era stato fatto anche in alcuni contributi dei T20 di anni passati, con l’idea che il G20 potesse raccomandarlo mentre, anche quest’anno, ha preferito limitarsi a rassicurare che la normalizzazione non verrà fatta da nessuno troppo presto. Speriamo non arrivi troppo tardi e in modo disordinato.  Ne soffrirebbero particolarmente i Paesi emergenti e in via di sviluppo che sono indebitati in valute estere e temono l’instabilità dei flussi finanziari globali e le fluttuazioni disordinate dei cambi.

L’orizzonte di medio-lungo termine dell’inflazione è sensibile ad alcuni fattori strutturali che potrebbero farla alzare anche troppo rispetto ai livelli dell’ultimo decennio. Se si confermassero certe tendenze a interrompere la globalizzazione (anziché governarla meglio insieme) con protezionismi e ri-localizzazioni forzate, chiusure sovraniste e rafforzamenti dei monopoli nazionali e regionali, il grado di concorrenza mondiale si abbasserebbe, verrebbe a mancare la gara globale dei prezzi che ne ha calmierato il livello negli ultimi vent’anni. Un rallentamento della corsa del progresso tecnico concederebbe tregua alle fatiche di continue innovazioni ma ostacolerebbe i guadagni di produttività e le riduzioni dei costi di produzione. Sul mercato del lavoro, oltre le conseguenze dell’invecchiamento delle popolazioni, potrebbero confermarsi quegli atteggiamenti post-pandemici che rendono molti più esigenti nel partecipare al mercato del lavoro, meno pronti a entrarvi a condizioni faticose e precarie e con basse remunerazioni, proprio mentre è più difficile sposare le competenze richieste dalle imprese con quelle disponibili nella forza lavoro. Ne risulterebbe un aumento dei costi del lavoro assieme a minore occupazione. Pressioni sui prezzi dei beni e dei servizi di consumo potrebbero venire anche dallo scongelamento delle bolle che hanno gonfiato i valori dei titoli e di altre attività, comprese quelle immobiliari dalle quali il costo della vita sarebbe anche accresciuto con rialzi diffusi e duraturi degli affitti.

Per monitorare e contenere l’inflazione entro i livelli desiderabili occorrerà quindi non solo l’attenzione delle politiche macroeconomiche, monetarie e fiscali, ma anche di quelle industriali e strutturali che mantengono fluido e competitivo il complesso dei meccanismi di mercato.

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